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    PAURA E DELIRIO CON HUNTER S.THOMPSON – TORNANO I REPORTAGE ADRENALINICI DEL TOCQUEVILLE DELL’AMERICA ROCK: COMINCIARE UN SUO ARTICOLO E’ COME PARTIRE PER UN GIRO SULL’OTTOVOLANTE. UNA RISALITA DALL’ABISSO, SU IN CIMA. IN UNA PAROLA: INTRATTENIMENTO – NEGLI USA DI NIXON INVENTO’ UN NUOVO GIORNALISMO: CHI SONO OGGI I SUOI EREDI? 


     
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    HUNTER S. THOMPSON HUNTER S. THOMPSON

    Stefano Pistolini per il Venerdì-la Repubblica

     

    Se volete assaporare ciò che è stato il giornalismo del secondo Novecento in una delle sue più pirotecniche espressioni, Hunter S. Thompson è l’uomo giusto. Nel giro di poche righe vi condurrà nel territorio dell’esperienza assoluta e al tempo stesso completamente empirica, dello scrittore che, per raccontare, deve sperimentare sulla propria pelle, buttandosi a corpo morto nell’azione, e dandosi da fare per offrirne il resoconto più emozionante possibile, sdoganando la prima persona singolare e ovviamente non negandosi qualche volo di fantasia.

     

    Thompson, va detto, non scriveva particolarmente bene – le sue descrizioni, nel tentativo perenne di essere le più vivide possibili, finivano per somigliarsi un po’ tutte – però curava maniacalmente un aspetto delle sue pagine: il ritmo. Cominciare un suo articolo, o un capitolo di uno dei suoi reportage, ancor oggi somiglia a premere il pulsante start per un giro sull’ottovolante. Si parte, e che dio ci protegga. È tutto un sussulto, uno scossone, una sorpresa, un ansimare, un capitombolo, una picchiata agli inferi e una risalita dall’abisso, su in cima, to the toppermost of the poppermost, come dicevano i Beatles. In una parola: intrattenimento.

    HUNTER S. THOMPSON HUNTER S. THOMPSON

     

    Thompson scriveva per soldi. E sapeva che la scorciatoia per guadagnarne di più era mettere su carta cose divertenti. Poi, probabilmente, scrivere gli piaceva. Ma non dava a vederlo, perché lui era il gonzo journalist, quello in perenne missione per conto dei suoi lettori, alla scoperta di segreti e peccati, vizi e paradisi dell’America a lui contemporanea, e anche dei suoi esotici dintorni. Salvo poi rifugiarsi in uno sgabuzzino, tirar fuori la macchina da scrivere portatile, ingoiare una generosa dose di anfetamine e darci dentro. Doveva raccontare ciò che aveva visto, ciò che aveva passato, i pericoli, le agnizioni, i personaggi, invariabilmente eccezionali, che aveva incrociato,

    buonissimi e cattivissimi. Soprattutto immergersi nella sterminata stravaganza del mondo moderno, tutto preso, in quegli anni frenetici, a darsi nuove forme e scoprire nuovi orizzonti.

     

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    Ora torna in circolazione La grande caccia allo squalo, pubblicato nel 1979 e nato come raccolta degli articoli e dei saggi scritti da Thompson tra il ‘56 e la fine dei Settanta, accatastando di tutto: sport, politica, società, soprattutto una serie di dimostrazioni di quanto pazzi fossero i suoi connazionali, con quel loro incontenibile desiderio d’arricchirsi, di possedere e di godersi la vita. La parte giocata da Thompson è sempre quella dell’osservatore disincantato, incappato in una situazione abnorme e assurda, che deve assolutamente raccontarci.

     

    L’edizione italiana del libro proposta da Bompiani assembla solo alcuni dei torrenziali pezzi presenti nell’originale, optando per la serie Paura e disgusto a…: la più visionaria, psichedelica e sfracellata, dedicata soprattutto alla rappresentazione del turbolento circo politico americano del tempo (l’epoca di Nixon, per intenderci). Quanto al reportage sulla pesca allo squalo, mantiene le promesse già grondanti dal titolo: pochissima punteggiatura e moltissimi guai, pasticci e pasticche a non finire e un’uscita in mare a largo di Cozumel che avrebbe provocato l’orticaria perfino a Ernest Hemingway. Thompson nasce nel Kentucky nel ’37 e scompare nel 1995, a 68 anni non ancora compiuti. La sua è una biografia da perfetto americano del secolo scorso: mille mestieri, spirito ondivago, una visione manichea del mondo e un debole per le tentazioni d’ogni genere.

     

    Nel ‘67 diventa famoso con un reportage sugli Hell’s Angels, la gang di motociclisti in Harley Davidson, scritto dopo aver trascorso un anno assieme a loro. La cultura alternativa ne fa uno dei suoi eroi e i suoi lavori escono sulle migliori riviste del paese, contraddistinti dal suo primo, e forse unico, comandamento professionale: raccontare solo ciò a cui hai preso parte, possibilmente facendo più casino degli altri. Un giornalismo plateale ed ego-riferito, che conosce l’episodio più fortunato con Paura e disgusto a Las Vegas, il cui sottotitolo focalizza il senso della spedizione: Viaggio nel cuore del Sogno Americano. Uno stile di vita e di scrittura dispendioso e spassoso al tempo stesso, che oggi cristallizza la figura dell’autore come emblema di un periodo e dei relativi bisogni.

    HUNTER S.THOMPSON 5 HUNTER S.THOMPSON 5

     

    Comunque, nonostante quei decenni già ci appaiano lontanissimi ed obsoleti, non è difficile seguire Thompson nelle sue imprese, con le sue manie di protagonismo,

    anche se la sensazione è di guardarlo affettuosamente di lontano, col distacco che si riserva a un film in bianco e nero. È il reporter bizzarro e concitato, drogatissimo, un filo contaballe, entusiasta della vita, spiritoso nel descriversi come il meno affidabile degli eroi per caso. Ci fa pensare al pronipote hippie dei grandi viaggiatori settecenteschi, coi loro diari di viaggio attraverso terre misteriose,

    sfiorando di continuo il fascino del selvaggio e dello sconosciuto.

     

    Thompson diventa così un Tocqueville dell’America rock, quella a un passo dal postmoderno ma ancora disordinata e analogica, anarchica e avventurosa. Un uomo che s’è inventato un mestiere, per il quale è stato omaggiato e profumatamente ricompensato. La domanda è: cosa resta di quel genere di comunicazione? Se pagine così elettrizzarono l’immaginazione di migliaia di lettori, spingendoli a far propria l’esperienza e a partire per vedere coi propri occhi cosa si nascondesse nei bassifondi di Las Vegas o nei deserti lisergici della California, oggi cos’ha preso il posto di tutto questo? E cosa abbiamo perduto?

    richard nixon richard nixon

     

    Davvero gli eredi di Hunter Thompson sono solo quei buffi tipi televisivi che lizza il senso della spedizione: Viaggio nel cuore del Sogno Americano. Uno stile di vita e di scrittura dispendioso e spassoso al tempo stesso, che oggi cristallizza la figura dell’autore come emblema di un periodo e dei relativi bisogni.

     

    Comunque, nonostante quei decenni già ci appaiano lontanissimi ed obsoleti, non è difficile seguire Thompson nelle sue imprese, con le sue manie di protagonismo, anche se la sensazione è di guardarlo affettuosamente di lontano, col distacco che si riserva a un film in bianco e nero. È il reporter bizzarro e concitato, drogatissimo, un filo contaballe, entusiasta della vita, spiritoso nel descriversi come il meno affidabile degli eroi per caso. Ci fa pensare al pronipote hippie dei grandi viaggiatori settecenteschi, coi loro diari di viaggio attraverso terre misteriose, sfiorando di continuo il fascino del selvaggio e dello sconosciuto.

     

    Thompson diventa così un Tocqueville dell’America rock, quella a un passo dal

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    postmoderno ma ancora disordinata e analogica, anarchica e avventurosa. Un uomo che s’è inventato un mestiere, per il quale è stato omaggiato e profumatamente

    ricompensato.

     

    La domanda è: cosa resta di quel genere di comunicazione? Se pagine così elettrizzarono

    l’immaginazione di migliaia di lettori, spingendoli a far propria l’esperienza e a partire per vedere coi propri occhi cosa si nascondesse nei bassifondi di Las Vegas o nei deserti lisergici della California, oggi cos’ha preso il posto di tutto questo? E cosa abbiamo perduto? Davvero gli eredi di Hunter Thompson sono solo quei buffi tipi televisivi che mangiano formiche fritte in Birmania, o mettono il braccio nella tana del crudele serpente australiano? La prima risposta è: abbiamo smarrito la parola.

     

    RICHARD NIXON RICHARD NIXON

    La forza della parola, perfino di uno come Thompson, che non era troppo paziente in fase di rilettura. Però lui conosceva formule, trucchi, espedienti e aveva un mestieraccio per spremere dalle parole il massimo effetto possibile. Aveva l’arte di raccontare qualcosa di nuovo, nei dintorni dell’incredibile. Di trascinare il lettore nelle sue spire elettriche, alternando discettazioni, borbottii personali e spiattellando quell’idea del Me Journalism che in effetti dev’essere antica quanto la scrittura. Scegliere il personalismo rispetto all’oggettività, dare spazio alla rappresentazione gaglioffa del proprio ego, spettacolarizzare i propri difetti e le conseguenti debolezze. Qualche anno più tardi l’immagine avrà il sopravvento sulla parola, arriveranno l’indigestione televisiva, la verticalità della rete, la paralisi indotta dei social. Muoversi d’improvviso parrà inutile. Sufficiente connettersi.

     

    E però mancherà quella percezione di corporalità, quel dato cinetico fatto di gioie e di paure, che popola queste pagine. Adesso la programmazione non lascia spazi a quell’improvvisazione di cui Thompson fu un virtuoso e un esteta. Salvo dire di no. E reinventarsi come giornalisti gonzo del 2000, in questo nostro strafottente mondo digitale. Cominciando dal primo comandamento: gambe in spalla. Di nuovo a caccia di squali. Andarli a cercare di fronte alle coste della Corsica, dove ne hanno segnalati di grossi. Magari con un tablet per scrivere e uno smartphone per fare due riprese. Perché, diamine, siamo nel XXI secolo. Il resto si vedrà lungo la strada. E auguri.

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